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Il lavoro si è rotto
Come cambierà la nostra stessa natura se l'antico e aristocratico privilegio dell’ozio diventasse un semplice diritto di nascita per tutta l’umanità?
Ho appena scoperto che i cognomi delle persone sono una “invenzione” medievale, affibbiati agli artigiani e corrispondenti alla loro professione.
Soltanto per i fabbri, dal latino ferrum, i cognomi proliferano: Fabbro, Fabbri, Ferraro, Ferrari (italiani) - Herrero, Herrera, Ferro (castigliani) - Smith, Blacksmith, Goldsmith, Locksmith, Brownsmith (inglesi) - Lefèvre, Lefebvre, Fèvre, Fabre, Faure, Ferrand, Ferrer (francesi) - Schmidt (tedesco).
In effetti, soprattutto nella civiltà occidentale, abbiamo sempre ritenuto che la nostra professione costituisse la nostra identità sociale. Oltre al lignaggio, il posto occupato da un individuo nel proprio contesto sociale è spesso dipeso dalla sua professione.
Per quanto detestato e maledetto, ci siamo consolati del fatto che il lavoro, più di ogni altra cosa, desse un senso, uno scopo e una struttura alla nostra vita quotidiana. Dopo tutto, è per andare a lavorare che ci si alza di buon’ora, che non si fanno le cinque di mattina il martedì sera, che ci veste dignitosamente. Ci fa sentire responsabili e ci allontana dai vizi. Ed è grazie al lavoro che si pagano le bollette, si prenotano le vacanze e si accede al mutuo per la propria casa.
Ai fannulloni del paese, ai vagabondi, agli scapestrati e agli zucconi veniva urlato Trovati un lavoro! consapevoli del fatto che solo così, avrebbero raddrizzato un’esistenza miserevole.
Siamo anche stati convinti che il lavoro rendesse liberi, almeno fino a quando non l’abbiamo letto sopra il cancello d’ingresso di Auschwitz.
Infine la politica, fine origliatrice dei moti d’animo popolari, si è servita a piene mani dalla leva emotiva dell’occupazione per solleticare il ventre molle delle nazioni. Ti ricorda qualcosa il milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi a Porta a Porta?
E ancora oggi, nonostante le radicali trasformazioni culturali in atto, si invoca all’abbattimento del tasso di disoccupazione come panacea di tutti i mali che affliggono il mercato, l’economia, i consumi, il deraglio sociale.
Ci hanno insegnato che il lavoro potesse liberarci dalle nostre origini modeste, offrirci un riscatto, una riaffermazione o una promessa per una vita migliore rispetto alle generazioni precedenti. E così abbiamo abbassato la testa e ci siamo dati da fare, lavorando di più e poi ancora di più. Nonostante le tecnologie digitali degli ultimi 20 anni ci abbiano permesso di liberarci di una montagna di tempo, automatizzando innumerevoli mansioni e funzioni, noi in ferie ci siamo andati quasi mai e non siamo più stati capaci di “staccare la spina”.
Faccio un piccolo inciso: se fossi ancora convinto o convinta che il presenzialismo indefesso costituisca un lasciapassare per la tua carriera, ahimè, non è così.
Lo dice questa ricerca della Harvard Business School, che sfata definitivamente l'idea che le persone che non prendono le ferie fanno carriera. Anzi, è esattamente il contrario.
Nel campione preso in esame, le persone che hanno preso meno di 10 giorni di ferie all'anno avevano il 34,6% di probabilità di ricevere un aumento o un bonus in un periodo di tre anni. Al contrario, chi ha preso più di 10 giorni di ferie ha avuto il 65,4% di probabilità di ricevere un aumento o un bonus. Taaaaac.
Va da sé che, citando le parole di Jenny Odell nel suo Come non fare niente, “in una situazione in cui ogni momento di veglia è diventato il tempo in cui ci guadagniamo da vivere”, gli scampoli di tempo libero rimasti si caricano di una responsabilità che non gli competono: quella di restituire un senso alla vita. E quindi le vacanze devono essere perfettamente organizzate e ottimizzate, le feste a cui si partecipa le migliori a disposizione, il ristorante la migliore scelta della città, la passeggiata domenicale quantomeno suggestiva e sorprendente. Mentre il cazzeggio non conferisce alcun valore aggiunto: che senso ha una vita che contempla il cazzeggio?
Il problema è che il lavoro non funziona più. Il lavoro si è rotto e ne siamo tutti consapevoli.
In pochissimi si sentono intimamente rappresentati professionalmente, e le gerarchie sono andate in frantumi. Architetti, avvocati e professori liceali vengono sfruttati e sottopagati, mentre influencer, crypto bros, dropshippers e star di OnlyFans o Twitch guadagnano milioni. Non voglio certo dire che sia sbagliato; la storia corre veloce e noi non siamo giudici affidabili. Tuttavia è lampante che le categorie sociali valide fino a pochi decenni fa non sono più riconoscibili.
Sono dell’idea che il lavoro sia al centro di una diffusa disaffezione e sfiducia. Dopo secoli di fede cieca nelle sue virtù e nella sua etica, nel mito dell’efficienza, della crescita e della competizione.
Oggi sta emergendo, come un geyser irrequieto, una nuova coscienza culturale che sostiene l’importanza spirituale del non fare nulla.
Non a caso, a partire dai mesi della pandemia è germogliata un terminologia tutta nuova e inconcepibile anche solo 5 anni fa, che denota un grandissimo rompimento di palle nei confronti della propria occupazione:, tra le quali:
Great resignation: l’ondata di licenziamenti di massa degli ultimi anni in tutto il globo terraqueo
Quiet quitting: Il limitarsi a fare lo stretto necessario senza fare straordinari o assumersi responsabilità
Goldbricking: il lavorare meno di quanto si è in grado di fare, mantenendo l'apparenza di star facendo molto.
Anche la Cina, nazione archetipica del lavoro disumanizzato, sta vivendo la sua rivoluzione silenziosa nel movimento di protesta chiamato Tang ping (躺平, «sdraiarsi»).
In breve stiamo dicendo: Fanculo il lavoro! Vogliamo avere tempo per vivere. Siamo assetati di tempo per fare cose.
E poi è arrivata l’intelligenza artificiale, sibillina e minacciosa, che promette mirabolanti meraviglie fantascientifiche e al contempo ci mostra lo spettro dell’inutilità umana.
Già nel libro Race Against the Machine, del 2011, due economisti del MIT affermavano che quasi la metà dei lavori esistenti, compresi quelli che comportano compiti cognitivi o creativi fossero a rischio di estinzione, causa l’automatizzazione informatica, entro vent’anni. Ne sono passati dodici nel frattempo…
E poi ho iniziato leggere in giro definizioni come “eccedenze umane”. E che vor dì?
Io lo chiamo esercito degli inutili, che rappresenta tutti coloro che, lavorativamente, non serviranno più a nulla, perché le loro “skills” saranno facilmente replicabili e migliorabili da agenti non umani.
Saranno moltissimi. Saranno un’orda di reddito-di-cittadinanziati con un sacco di tempo libero e nessuna competenza da offrire al metaverso dell’iper-produzione androide.
Per questi motivi, da buon comparatista universitario, mi sembra piuttosto plausibile che nel giro di pochi (pochissimi) decenni, oltre a fronteggiare una mastodontica crisi economica ci troveremo ad affrontare un’altrettanto enorme crisi morale ed esistenziale, con le radici affondate nell’umanesimo tout-court.
Come riempiranno, queste “eccedenze umane”, le loro lunghe giornate disoccupate? Quali nuovi stratagemmi daranno un senso alla loro vita?
Girovagando come un flâneur immerso in queste visioni dis-utopiche (si può dire?) mi sono sbocciati, come funghi prematuri di fine luglio, alcuni interrogativi che suonano più o meno così:
Quale faccia avrebbe la nostra società se non dovessimo più "guadagnarci" da vivere, se il tempo libero non fosse la nostra scelta ma il nostro destino?
Come cambierà la nostra stessa natura se l'antico e aristocratico privilegio dell’ozio diventasse un semplice diritto di nascita per tutta l’umanità?
Avremmo ancora voglia di combinare qualcosa? Di aprire un ristorante? Di cucire borse di pelle? Di studiare l’inglese “perché è la lingua del futuro”?
Oppure preferiremo andare a cavallo o fumeremo erba tutto il giorno guardando Temptation Island?
Che fine farà il “capofamiglia”? Chi pagherà al ristorante? Se il lavoro scompare chi è che “porta i pantaloni”?
Senza dubbio, ci sarà da divertirsi nel re-immaginare completamente la famiglia e i rapporti umani.
Sono convinto che emergeranno discipline completamente nuove e nuovi settori dell’intrattenimento, che dovranno soddisfare le richieste impellenti dell’esercito degli inutili; gente con qualche soldo in tasca e con tanta noia da sconfiggere.
Prova anche tu a farti queste domande:
Cosa faresti se non ci fosse più il lavoro che ti organizza la vita diurna e notturna?
Come ti sentiresti senza l’imperativo sociale che ti fa alzare le chiappe dal letto la mattina?
Cosa faresti se non dovessi lavorare per ricevere un reddito?
Non sono domande così banali, vero? Soprattutto considerando che, se non noi, sicuramente le prossime generazioni dovranno conviverci. Quando si perde la la narrazione della propria vita, è facile cadere nei meandri della follia, delle azioni sconsiderate, del baratro di vacuità di senso, e quindi di ricerca sfrenata dell’esperienza a tutti i costi, per quanto estrema essa sia.
Se anche tu, come me, sei cresciuto o cresciuta con la convinzione che la professione fosse il principale parametro del tuo valore per la società, allora ti sembrerà di barare ai dadi ottenendo qualcosa in cambio di niente.
Sicuramente, la crisi del lavoro che stiamo attraversando è anche una grandissima opportunità intellettuale e spirituale per ripensarci come esseri umani, similmente a quando siamo passati dall’essere nomadi cacciatori raccoglitori all’essere pallosi contadini stanziali.
Negli ultimi dieci secoli abbiamo scommesso così tanto sull'importanza sociale, culturale ed etica del lavoro che quando infine si rompe, come sta succedendo in questi anni, siamo costretti a resettare tutto e diventare qualcosa di diverso, per l’ennesima volta.
Ho conosciuto la mia ragazza in un parco cittadino, eravamo sdraiati uno di fianco all’altro, sui nostri rispettivi teli colorati, a prendere il sole e leggere un libro: io Houellebecq, lei Calvino. A un certo punto le ho rivolto la parola, facendo una battuta su una finta gondola che portava due turisti lungo il fiume Po. E poi ci siamo chiesti: Che fai nella vita? Forse non abbiamo ancora smesso di parlarne.
Ecco, probabilmente dovremo ripensare anche questo: cosa diremo al nostro futuro partner per attaccare bottone?
Lo so, ho messo tanta carne al fuoco, però hai tutto il mese di agosto per ritornare qui e fare le tue riflessioni, se ti va. Prova a dedicare qualche ora in spiaggia a pensare a cosa costituisce la tua identità al di fuori del tuo lavoro; può essere un esercizio stimolante per arricchirti e creare nuovi punti di riferimento.
Noi ci rileggiamo a settembre 👋
Consigli di lettura
Se non l’hai ancora consultato, c’è il mio ToolKit. Ci ho messo dentro tutto quello che leggo, ascolto, guardo, uso, sperimento. Una serie di liste, catalogate per categorie, con tutti i link utili per accedere ai contenuti.
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